Il gusto solido e fragile delle nostre montagne
Stella Alpina Spiz Piaz
Quando anche il gusto, in rifugio, è una questione di identità. E responsabilità…
“Mamma, mamma! Ho fatto un risotto al cacao! La polenta al rosmarino e pino mugo, lo strudel al carciofo, la pasta con lo zucchero… perché nessuno fa mai la pasta con lo zucchero?”
Quando era bambino, Vittorio non arrivava all’altezza dei fornelli e allora prendeva una sedia e ci si arrampicava sopra per annusare e curiosare. “Fuori dalla cucina!”, lo rimbrottava la mamma mentre Vittorio zigzagava fra i camerieri venuti a portare gli ordini o a recuperare i piatti. E poi schivava agile i fratelli più grandi, traballanti sotto i pentoloni di minestra e canederli, intenti a mescolare la polenta e a fondere il formaggio.
Il mio nome
Mi presento, sono il Rifugio Stella alpina Spiz Piaz e ricordo tutti quei profumi – creativi! - delle ricette fantasiose degli otto anni di Vittorio, poi degli esperimenti coraggiosi delle medie, condotti testardamente tra una stagione e l’altra. “Cosa fai ancora qua? Vai a giocare!”, cercavano di cacciarlo famigliari e amici, con bonarie intimazioni. Ma non c’era verso: “Io sono un cuoco e un cuoco sta in cucina”.
Quante ne hanno viste queste mie quattro pareti e quanta gioia questa famiglia, un poco spigolosa a volte, ma calda e ospitale, sempre unita nelle difficoltà. Li ho visti crescere tutti, i ragazzi e le ragazze, fra le stelle alpine che mi hanno dato il nome.
Il mio chef
Vittorio è tornato da un paio d’anni, con la stessa passione di quando era bambino, ma carico di esperienza. La scuola alberghiera, i pranzi con gli amici, gli anni passati con il fratello più grande in cucina e i primi abbinamenti curiosi poi riproposti agli amici sul fuoco vivo delle baite di montagna.
Ormai la mia cucina è il suo regno.
Lavora sodo tutto l’anno e prepara, insegna, dirige, mostra, spiega. Appena ha respiro studia, inventa, assaggia, mescola, cuoce. Gira il Trentino in lungo e in largo per parlare con i contadini, con gli allevatori, con chi si occupa di erbe, di mieli, di fiori. Conosce ogni sapore della sua terra e ormai sa dove trovare il meglio del meglio per esaltare il gusto e valorizzare il lavoro delle gemme più preziose.
Non esita ad avventurarsi nei borghi sperduti, là dove c’è Arrigo, l’amico contadino che gli prepara la farina di mais d’un tempo e poi i ragazzi della N’Outa, che riprendono le colture antiche, hanno le api e fanno gli sciroppi di cirmolo e pino mugo, oltre a una marmellata di rosa canina profumata come i fiori.
In casa, invece, si fa insieme la pasta e si preparano le zuppe, i canederli, le salse, gli estratti, i gelati, le torte. C’è lo strudel, curato in ogni dettaglio, dalle mele alle uvette ai pinoli, fino alla morbida pasta di farina antica e burro fresco e poi le proposte audaci, come il gelato al levistico, o sedano di monte, che stupisce chiunque lo assaggi.
Che sapore ha la montagna?
“Ma la polenta? “
“Tranquilli, la polenta resta! La migliore che c’è!”. L’ho sentito io, Vittorio, mentre vagava su e giù per la cucina, chiedendosi fra sé: “Che sapore ha la montagna?” Io credo che sia cominciato tutto da lì. L’idea di una cucina autentica, ma profonda, capace di mescolare la genuinità con un’innovazione radicata in quello che il territorio può offrire. Vittorio si è messo in cerca, sdegnando ogni scorciatoia.
È andato a scavare nella storia delle erbe e della tradizione, dei grani antichi, delle lavorazioni lente e rispettose che ci hanno insegnato i nonni, dell’attenzione a ogni dettaglio e a ogni ingrediente. Per un periodo, la cucina è stata sommersa di libri, di erbe e di farine d’ogni tipo e colore. Poco alla volta gli ingredienti si sono mescolati, combinati e sono esplosi.
Una mattina mi sono svegliato e ho trovato pure un orticello, spuntato di fianco a una delle mie pareti: “mi servono erbe e spezie di montagna che siano fresche e a portata di mano”. Così adesso, quando mi addormento, a cullarmi ci sono gli aromi della santoreggia, del coriandolo, della monandra, del levistico, della senape, del dragoncello e del cerfoglio.
Per portare in tavola l’essenza della montagna bisogna conoscerla profondamente. Le Torri del Vajolet e il Catinaccio sono lì, sospesi in attimi di vita, in attesa perenne dei loro innamorati. Le stagioni si allungano: Vittorio e la sua famiglia hanno scelto di tenermi aperto anche quando sono più tranquillo e rilassato. Ho i miei silenzi, i miei spazi. Ho più tempo per accogliere chi viene a trovarmi.